INTRA UE: Partita IVA + Rappresentante = Stabile Organizzazione

Fonte: Fisco Oggi

Data: 2/8/2012

Autore: V. Giuliani

Il requisito impositivo si ricava con un ragionamento logico-giuridico. Al contribuente resta la possibilità di provare l’insussistenza degli elementi che lo individuano.

L’impresa straniera, a cui è stato attribuito dall’Amministrazione finanziaria il numero di partita IVA e un rappresentante fiscale, assolve l’imposta nel territorio italiano. E’ da questi elementi che si ricava il presupposto impositivo della stabile organizzazione, fatto salvo l’onere di provare la presenza di elementi a sostegno del diritto al rimborso dell’IVA versata per acquisti intra UE da parte del contribuente.

Il caso
Una società estera si vide rifiutare dall’Amministrazione finanziaria italiana l’istanza di rimborso, ai fini delle imposte indirette, per degli acquisti effettuati sul territorio dello Stato, in quanto titolare di partita Iva, fatto che avrebbe caratterizzato la qualità di stabile organizzazione in Italia e che non avrebbe concesso all’azienda il diritto alla ripetizione dell’imposta.
Avverso il diniego, i legali della società proposero ricorso al giudice di merito che, sia in primo grado sia in appello, accolse in toto quanto contestato dall’azienda straniera.

In particolare, la ricorrente richiamava il disposto dell’articolo 44, co.3, DL 331/1993, il quale prevede, per l’attribuzione della partita Iva, la nomina di un rappresentante minore o cosiddetto leggero, il che avrebbe pacificamente concesso il diritto alla detrazione dell’imposta alla società perché non si trattava della costituzione di una vera e propria stabile organizzazione.

Il giudice di merito aveva motivato la sentenza di accoglimento del ricorso chiarendo che l’Amministrazione finanziaria non aveva provato, nel giudizio, gli elementi su cui aveva basato la pretesa impositiva. In buona sostanza, secondo la Ctr, non era condizione sufficiente la titolarità della partita IVA da parte della società affinché si potesse evincere il requisito della stabile organizzazione nel territorio italiano, ancor meno con la costituzione di un rappresentante fiscale leggero.

Avverso la decisione della Ctr, l’Agenzia proponeva ricorso per cassazione.

La decisione della Corte
Il Collegio, nell’ordinanza 12633 del 20 luglio, ha preliminarmente evidenziato l’errore in diritto della sentenza dei giudici d’appello, nel punto in cui veniva dichiarato che l’ufficio non aveva “provato che la società” avesse “in Italia una stabile organizzazione, non essendo la partita Iva e la presenza di un rappresentante fiscale leggero sufficienti a determinare la stabile organizzazione di un’impresa”.

In particolare, la giurisprudenza della Corte ha più volte affermato che si ravvisa il requisito impositivo della stabile organizzazione, secondo un ragionamento logico-giuridico, nel momento in cui l’Amministrazione finanziaria attribuisce il numero di partita Iva al soggetto che lo richiede; pertanto, da questo momento, gli vengono preclusi i benefici fiscali della detrazione dell’imposta per gli acquisti effettuati nel territorio comunitario.
Infatti, è proprio l’articolo 38-ter DPR 633/1972 che prevede, per i soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della Comunità europea, il diritto al rimborso dell’imposta, nel caso in cui essi siano privi di stabile organizzazione in Italia e di rappresentante nominato ai sensi del comma 2 dell’articolo 17. L’onere della prova, per la fruizione del menzionato beneficio fiscale, ricade sul contribuente e non anche sull’Amministrazione finanziaria.

La Cassazione, con l’ordinanza 12633/2012, ben chiarisce che la società estera, avendo effettuato operazioni nel territorio italiano, palesate dal fatto che ne aveva richiesto il rimborso dell’Iva e, avendo nominato un rappresentante fiscale (seppur leggero), aveva superato di fatto la presunzione di prova contraria derivante dalla titolarità della partita Iva, rivelando la presenza della stabile organizzazione nello Stato.
Fatta salva la possibilità che l’ordinamento tributario offre al contribuente di fornire prova contraria a dimostrazione della mancanza degli elementi in ordine materiale e personale che individuano la nozione di stabile organizzazione (cfr Cassazione 3570/2003 e 6799/2004).

Inoltre, non avendo la società straniera allegato nel controricorso ulteriori elementi atti a sorreggere l’insussistenza dei presupposti impositivi accertati dal Fisco e avendo nominato un rappresentante fiscale nel territorio italiano, il Collegio ha confermato il diniego al diritto del rimborso Iva.

Nel controricorso, la società straniera aveva evidenziato come il regolamento 282/2011 del consiglio UE esclude che l’attribuzione al contribuente del numero di partita Iva non sia di per sé sufficiente a considerare il soggetto passivo dell’imposta in possesso del requisito impositivo della stabile organizzazione all’interno del territorio dello Stato.
In tal caso, la Corte di cassazione, con l’ordinanza 12633/2012, ha chiarito che il richiamato regolamento del consiglio Ue è teso a fissare il concetto di stabile organizzazione ai fini del principio di territorialità e non anche dal punto di vista della ripartizione dell’onere della prova tra contribuente e Amministrazione finanziaria.
In buona sostanza, spetta sempre al contribuente fornire elementi a sostegno del diritto al rimborso dell’Iva versata per acquisti intracomunitari.

INTRA UE: prova dell’effettiva consegna per la cessione intracomunitaria

La Cassazione conferma la sua posizione di fronte al fenomeno delle frodi fiscali: senza prova dell’effettiva consegna, la cessione non è intracomunitaria e il cedente deve pagare l’IVA

Con sentenza n. 13457 del 27 luglio 2012, la Cassazione ha stabilito che la società che effettua cessioni intra UE deve dimostrare che la merce è stata effettivamente consegnata all’estero, altrimenti rischia di dover pagare l’IVA.

La controversia nasce da un ricorso proposto da una nota società nazionale che si è opposta alle contestazioni dell’Amministrazione finanziaria, che aveva recuperato l’IVA su operazioni di cessione merci effettuate dalla società italiana verso una società francese, sulla base del presupposto che, difettando la prova dell’effettivo spostamento delle merci dal territorio nazionale, la società nazionale non potesse avvalersi del regime di non imponibilità ex art. 41, co.1 DL 331/1993 (cessioni intra UE).

Per il riconoscimento della non imponibilità per le cessioni intra UE, il cedente deve provare che i beni siano stati effettivamente trasportati o spediti nel territorio di un altro Stato membro, non basta la conferma della validità della partita IVA estera (art.50, co.1 e 2 DL 331/1993) e di averla indicata in fattura, essendo questi adempimenti di natura formale, per “agevolare il successivo controllo ed evitare atti elusivi o di natura fraudolenta”.

Utilizzando i principi comunitari (rif. sentenze Corte di giustizia UE, sentenze 27/09/2007, causa C-409/04, Teleos, punto 42 e causa C-184/05, Twoh International, punto 23), la Cassazione stabilisce che:

  • se è legittimo che i provvedimenti adottati dagli Stati membri tendano a preservare il più efficacemente possibile i diritti dell’Erario, essi non devono eccedere quanto è necessario a tal fine (punto 52, sentenza Teleos – questo in generale è proprio il caso dell’Italia);
  • non sarebbe contrario al diritto UE esigere che il fornitore adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad una frode fiscale (punto 65);
  • le circostanze che il fornitore ha agito in buona fede, che ha adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere e che è esclusa la sua partecipazione ad una frode costituiscono elementi importanti per determinare la possibilità di obbligare tale fornitore ad assolvere l’IVA a posteriori (punto 66).

Sul grado di diligenza richiesto al cessionario, secondo la Cassazione (v. anche sentenza n. 10414/2011) si deve avere riguardo a requisiti non formali, ma sostanziali, senza “ovviamente pretendere un inesigibile dovere di accurata indagine, ma fondandosi su quegli elementi obiettivi (es. assenza di strutture) che non possono sfuggire ad un contraente onesto che operi in un determinato settore commerciale e che in particolare non devono sfuggire ad un imprenditore mediamente accorto”.

STABILE ORGANIZZAZIONE: si anche se l’attività è svolta all’estero

Fonte: Fisco Oggi

Data: 13/06/2012

Autore: V. Giuliani

È irrilevante il fatto che la società di San Marino non abbia veri e propri locali in Italia se, poi, è dotata di uomini e mezzi che operano in piena autonomia gestionale

Si configura la stabile organizzazione di una società straniera in Italia quando questa abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o meno di personalità giuridica.

Questo, in sintesi, il principio stabilito dalla Cassazione con la sentenza n. 20676 del 29 maggio._ 

Il caso
A seguito del sequestro preventivo di beni di proprietà di una Srl, disposto dal Gip nell’ambito di un procedimento penale a carico di un imprenditore indagato per i reati di omessa dichiarazione e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (articoli 5 e 11 Dlgs 74/2000), è stata presentata dal rappresentante legale della società istanza di riesame al tribunale territorialmente di competenza.
I giudici di merito, rigettando la richiesta di riesame, avevano evinto, sulla base degli esiti dell’attività investigativa svolta dalla Guardia di finanza e della copiosa documentazione fiscale e contabile acquisita, la sussistenza del fumus boni iuris dei reati ipotizzati e che il sequestro era stato legittimamente disposto, ai sensi dell’articolo 322-ter, comma 2, codice penale, e dell’articolo 1, comma 142, L. Finanziaria per il 2008.
Gli inquirenti avevano accertato come l’indagato, al fine di evadere le imposte, fosse effettivamente l’amministratore e il detentore della maggioranza di una Srl iscritta nel registro delle imprese della Repubblica di San Marino che operava quasi esclusivamente per la Srl italiana.
In sostanza, l’attività imprenditoriale si svolgeva con l’effettuazione dei controlli della qualità dei tessuti a San Marino, i quali venivano poi trasferiti nei laboratori italiani per il confezionamento degli abiti.
Questo procedimento industriale veniva confermato dalle sommarie informazioni testimoniali fornite dai responsabili dei laboratori, i quali avevano dichiarato di aver intrattenuto rapporti lavorativi con la medesima persona, sia che avessero lavorato per la ditta italiana sia per quella sammarinese.
L’imputato aveva sì creato la società a San Marino, ma, secondo quanto evidenziato dal Gip, svolgeva la sua attività imprenditoriale nel territorio italiano, servendosi anche dell’ausilio della figlia che deteneva il 70% delle quote della società italiana.
Inoltre, erano state rinvenute nell’abitazione dell’imprenditore, che dichiarava essere un mero consulente della società, i libri e le scritture contabili sia della società sammarinese che della società italiana, il che provava di fatto che le due società erano gestite dalla medesima persona.
Alla luce di quanto detto, il Tribunale contestava al contribuente l’obbligo della presentazione della dichiarazione annuale ai fini Iva e Ires, ricorrendo il requisito della stabile organizzazione sia sotto il profilo personale che materiale.
In effetti, i capi d’abbigliamento venivano confezionati in Italia, come confermato dai responsabili dei laboratori, i quali avevano puntualizzato che il controllo della qualità veniva effettuato nei medesimi locali nei quali si intrattenevano anche rapporti commerciali.
La Guardia di finanza aveva prontamente rilevato che, tre giorni dopo la cessazione degli accertamenti, la società immobiliare amministrata dall’imputato, proprietaria di tutti gli immobili della famiglia, era stata trasformata in società a nome collettivo avente come soci la moglie e le figlie al solo fine di rendere impignorabile le quote della società di persone.
Di conseguenza, il tribunale competente, rilevando il periculum libertatis dell’imputato, aveva disposto il sequestro delle quote delle società di proprietà del contribuente, che è ricorso in Cassazione.

La pronuncia della Corte
Come affermato dalla giurisprudenza della Corte, la nozione di stabile organizzazione di una società straniera in Italia, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, si evince dall’articolo 5 del modello di convenzione Ocse contro la doppia imposizione e dal suo commentario, integrata con i requisiti prescritti dall’articolo 9 della sesta direttiva Cee n. 77/388 del Consiglio del 17 maggio 1977.
La normativa comunitaria individua il centro di attività stabile in una struttura dotata di risorse materiali e umane che può essere costituito anche da un’entità dotata di personalità giuridica, alla quale la società straniera abbia affidato anche di fatto la cura di affari (con l’esclusione delle attività di carattere meramente preparatorio o ausiliario, quali la prestazione di consulenze o la fornitura diknow how.
E’ prevista un’ulteriore prova dell’attività economica svolta dal soggetto nazionale che può essere ricavata anche da elementi indiziari “quali l’identità delle persone fisiche che agiscono per l’impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o alla stipulazione di contratti, indipendentemente dal conferimento di poteri di rappresentanza”.
La Corte di cassazione, con la sentenza 20676 del 29 maggio, ha inserito un importantissimo tassello nell’ampio mosaico del principio impositivo della stabile organizzazione, chiarendo che si prescinde dalla fittizietà o meno dell’attività della società svolta all’estero.
Nello specifico, i giudici di legittimità hanno stabilito che sussiste il requisito impositivo della stabile organizzazione di una società straniera in Italia anche nel caso in cui questa abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o no di personalità giuridica.
Nel caso sottoposto a giudizio di legittimità, a nulla rileva il fatto che la società sammarinese non avesse locali in Italia; i giudici di piazza Cavour hanno evidenziato un’evidente irrazionalità del ciclo produttivo che imponeva il transito delle merci nei locali di San Marino per un mero controllo di qualità per poi essere spedite per la lavorazione finale in territorio italiano: circostanza smentita dagli stessi titolari dei laboratori, i quali avevano dichiarato che l’attività di controllo avveniva nei medesimi locali.
Appare dunque evidente che la società sammarinese avesse una stabile organizzazione in Italia, perché, a parte l’irrazionale ciclo produttivo delle merci, i capi venivano prodotti esclusivamente sul territorio italiano nonostante fosse gestita la produzione dalla Repubblica di San Marino, venivano pattuiti le tipologie di prodotto e le modalità di lavoro da eseguire, il trasporto e i prezzi finali dei vestiti.
Da ciò ne consegue, giocoforza, che la società sammarinese aveva uno stretto legame col territorio italiano, essendo dotata di un’organizzazione di uomini e di mezzi idonea a operare in loco in piena autonomia gestionale.

IVA: Contribuente libero sulle modalità di recupero

Fonte: Eutekne.info

Data: 15/05/2012

Autore: V. Cristiano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7330/2012, avalla definitivamente il principio secondo cui la mancata attivazione della (speciale) procedura di variazione dell’IVA non vìola il diritto al rimborso da parte del contribuente, il quale gode dell’assoluta libertà di scelta circa l’azione da effettuare.

I giudici, aderendo a una consolidata giurisprudenza in materia, hanno ribadito il principio in forza del quale, in tema di IVA, nelle ipotesi in cui l’imposta sia stata calcolata, per ignoranza o falsa conoscenza delle disposizioni applicabili, sulla base di un’aliquota superiore a quella effettivamente dovuta, l’art. 26 del DPR 633/1972 deve essere interpretato nel senso che la mancata attivazione della procedura speciale di variazione dell’imposta e dell’imponibile, prevista dalla norma citata, da un lato fa venir meno il diritto a recuperare l’imposta mediante il meccanismo della detrazione ma, dall’altro, non preclude la chance di ottenere il rimborso della maggiore imposta versata (indebitamente), poiché tale procedura si configura quale strumento a disposizione del contribuente, “che potrebbe pertanto optare, del tutto legittimamente, per l’azione generale di rimborso prevista dalle norme sul contenzioso”.

Tanto premesso, secondo i Giudici, non “coglie nel segno” neppure il richiamo alla giurisprudenza comunitaria più recente operato dalla controparte (Corte di giustizia 18 giugno 2009, causa C-566/07, Stadeco). Con puntuale e argomentata ricostruzione, la Cassazione ha “sezionato” punto per punto l’incongruenza della citata giurisprudenza concludendo, anzi, che “la sentenza […] si limita a stabilire che è, in linea di principio, incompatibile con la normativa comunitaria una legislazione nazionale […] che subordini il diritto al rimborso dell’IVA alla suddetta condizione; non può, invece, essere intesa nel senso che il diritto comunitario imponga esso stesso tale onere”.

Riportando tale principio al caso in esame, il contribuente che, pur avendo computato le detrazioni per i mesi di competenza, abbia omesso di computarle nella dichiarazione annuale, perde il diritto a dette detrazioni, ai sensi dell’articolo 28, comma 4, del DPR 633/1972, fermo restando il diritto al rimborso di quanto versato in eccedenza, in applicazione dell’articolo 30, comma 2, dello stesso DPR.

Al riguardo, come altra giurisprudenza comunitaria evidenzia (sentenza 15 dicembre 2011, causa C-427/10, Banca Antoniana popolare Veneta spa), in assenza di specifica disciplina comunitaria in tema di domande di rimborso di imposte indebitamente prelevate, “spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possano essere presentate” ma, come i giudici della Suprema Corte sottolineano, è in ogni caso presupposto indefettibile che i citati requisiti rispettino i principi di equivalenza ed effettività. In altri termini, è necessario che tali requisiti non siano meno favorevoli di “quelli che riguardano reclami analoghi di natura interna e non siano congegnati in modo da rendere praticamente impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario”.

La neutralità è uno dei principi portanti del sistema IVA

Con la sentenza in commento, la Cassazione ci permette di ricordare, fra l’altro, quello che è uno dei principi “portanti” del sistema IVA: la neutralità (cfr. Corte di giustizia CE, 14 febbraio 1985, causa 268/83, Rompelman; 15 gennaio 1998, causa C-37/95, Ghent Coal Terminal; 19 settembre 2000, causa C-454/98), in forza della quale il sistema comune dell’IVA garantisce la corretta applicazione dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA (Corte di giustizia Ue, 8 febbraio 2007, causa C-435/05, Investrand; 22 febbraio 2001, causa C-408/98, Abbey National).

Riassumendo, quindi, la neutralità è resa effettiva dalla detrazione e, quando questa non è tecnicamente possibile, dal rimborso. “Tecnicamente” nel senso che la detrazione può essere operata se vi è un’imposta a debito: altrimenti, come indica l’art. 30, comma 1, del DPR n. 633/1972, si deve riconoscere il rimborso.