IVA: in futuro aliquota unica e minori esenzioni

Fonte: Eutekne.info

Data: 02/12/2011

Autori: R. Quaranta e M.Peirolo

Il mercato unico “del futuro” potrebbe avere un’unica aliquota IVA(ossia quella ordinaria) e una base imponibile più ampia, anche grazie alla progressiva riduzione delle esenzioni: queste sono alcune delle proposte della Commissione Ue, presentate ieri in anteprima in occasione de “La revisione dell’IVA europea”, convegno organizzato a Milano dallo studio “Paolo Centore & associati”.

Come noto, lo scorso 31 maggio si è chiusa la consultazione pubblica relativa al “Libro verde sul futuro dell’IVA”. Sulla scorta dei circa 1.700 contributi raccolti (per un totale di 8.500 pagine), la Commissione europea ha individuato i settori prioritari di intervento per poi arrivare a delineare il sistema dell’IVA “definitivo”, che sarà reso pubblico entro la prossima settimana. La Direttiva 2006/112/CE stabilisce infatti che l’attuale regime sia transitorio e debba essere sostituito da un regime definitivo, essenzialmente basato sulla tassazione dei beni e dei servizi nello Stato membro d’origine. Un simile obiettivo ha finora presentato qualche difficoltà, soprattutto per l’attuale sistema disarmonico delle aliquote IVA, oltre che per la mancanza di un adeguato sistema di compensazione e di riscossione fra Stati membri.

Numerose sono, comunque, le migliorie necessarie per rendere il meccanismo d’imposizione intra-Ue realmente “semplice, solido ed efficiente”. A partire dal dibattito sul Libro verde, il Capo della Unit VAT alla Commissione Ue, Donato Raponi, ha esposto alcune delle principali direttrici d’intervento. Fra le possibili modifiche, spicca l’applicazione di un’aliquota IVA unica, quella ordinaria, su tutti i beni e servizi, con conseguente progressiva eliminazione delle aliquote ridotte: per attenuare gli effetti “sociali” derivanti dalla misura, la Commissione ipotizza di introdurre specifiche sovvenzioni per le categorie meritorie, trasferendo l’aiuto dall’imposizione indiretta a quella diretta ovvero all’intervento di Stato. Un altro aspetto da non sottovalutare, per gli effetti distorsivi sulla concorrenza, riguarda la disparità fra beni e servizicomparabili quali, ad esempio, i libri cartacei e gli e-book: lo stesso prodotto culturale, infatti, sconta l’aliquota ridotta se stampato e quella ordinaria se “digitale”.

Ulteriore obiettivo è l’ampliamento della base imponibile: da un lato, eliminando leesenzioni in maniera graduale, dall’altro operando una revisione del trattamento di non imponibilità per i servizi di trasporto passeggeri. Riguardo al primo aspetto, la Commissione prevede di utilizzare un approccio mirato e progressivo, cominciando dalle esenzioni relative alle attività degli enti pubblici, con un coinvolgimento nella sfera IVA delle attività che siano, per loro natura, concorrenziali. Quanto invece al secondo aspetto, si vorrebbero eliminare elementi anti-concorrenziali quali le differenze di trattamento fra mezzi di trasporto e Stati membri: si potrebbe quindi pensare di sopprimere l’esenzione applicata ai viaggi aerei e marittimi, attualmente basata su un criterio di territorialità proporzionale di difficile controllo, e sulle forniture di beni a bordo di tali mezzi.

Infine, dovrebbe essere sciolto il nodo della territorialità IVA. Seppure l’ipotesi prevista dalla Direttiva 2006/112/CE per il regime “definitivo” sia quella della tassazione nel luogo di origine, la Commissione Ue ha concluso che il meccanismo debba essere improntato sulla tassazione nel Paese di destinazione, purché si cerchino modi alternativi per implementare questo principio, soprattutto a livello di certezza del diritto e di riduzione degli oneri amministrativi sulle operazioni intra-Ue.

Infine, il Libro Bianco richiama l’attenzione sulla necessità di riesaminare le modalità di riscossione con metodi che vadano al di là dell’autodichiarazione. Uno dei possibili modi per ovviare alle frodi, nella specie commesse dal fornitore che incamera l’IVA senza versarla all’Erario, è quello dello split payment: l’IVA viene versata al Fisco direttamente dall’acquirente, anziché essere pagata in aggiunta al prezzo del bene.

L’attenzione che il Libro Bianco riserva al sistema dell’IVA, oltre a riflettere i cambiamenti intervenuti nei quarant’anni della sua introduzione, è dovuto al fatto che l’imposta sul valore aggiunto rappresenta per i 140 Paesi che l’utilizzano una preponderante fonte di entrate, specialmente in tempi di crisi: i consumi – a differenza di utili e redditi – forniscono una base piuttosto stabile e meno “altalenante”. Da qui, il ricorso crescente degli Stati (non solo dell’Unione) al prelievo indiretto. Per restare in Italia, pare essere ancora questa la strada seguita dal Governo Monti nel decreto in preparazione: dopo l’innalzamento di un punto percentuale dell’aliquota ordinaria, ad opera del precedente Governo, l’idea circolata è che possa ulteriormente essere aumentata al 23%, mentre l’aliquota ridotta del 10% passerebbe all’11%.

IVA: rileva il luogo in cui ha sede l’attività economica

Per la disciplina IVA conta la sede dell’attività: di conseguenza, l’imprenditore che ha stabilito la sede dell’attività economica in uno stato membro UE diverso da quello nel quale mantiene la residenza, deve essere considerato in quest’ultimo stato come un soggetto non residente.

Questo importante chiarimento è stato fornito dalla Corte di giustizia Ue con la sentenza 6/10/2011, nel procedimento C-421/10, sull’interpretazione delle disposizioni in materia di debitore dell’IVA, e in particolare con riguardo ai presupposti necessari per l’applicazione del meccanismo del reverse charge nel caso di effettuazione dell’operazione da parte di un soggetto non stabilito nel luogo in cui è dovuta l’imposta.

La questione, sollevata con riferimento alle pregresse disposizioni della sesta direttiva è ancor più rilevante alla luce della riforma del 2010.

La vicenda, contestata dall’Amministrazione finanziaria tedesca, ma ritenuta regolare dalla sentenza della Corte di giustizia UE è la seguente: una persona fisica nel 2002 trasferiva dalla Germania all’Austria la sede della propria attività economica, ottenendo partita IVA austriaca; dopo qualche mese trasferiva anche la residenza anagrafica, ma secondo l’autorità doganale egli continuava a soggiornare frequentemente in Germania. L’imprenditore fatturava le prestazioni rese a imprese stabilite in Germania senza addebitare l’IVA tedesca, ritenendo che l’imposta dovesse essere applicata dagli stessi destinatari con il meccanismo dell’inversione contabile, in ragione del fatto che le prestazioni erano rese nel territorio tedesco da un soggetto passivo non residente in tale territorio. L’amministrazione, però, non riteneva soddisfatte le condizioni per l’applicazione dell’inversione contabile, poiché l’imprenditore non poteva essere considerato un soggetto passivo non residente in Germania, avendovi mantenuto la residenza di fatto.

La decisione

La Corte di giustizia UE ha osservato che la qualità di soggetto passivo non residente all’interno del paese presuppone che il soggetto passivo non disponga in tale paese, nel periodo di riferimento, di alcuno dei criteri di collegamento individuati dalla norma:

  • il primo criterio è la sede dell’attività economica e l’esistenza di un centro di attività stabile (ora stabile organizzazione) a partire dal quale sono svolte le operazioni;
  • gli altri criteri (domicilio o residenza abituale del soggetto passivo) possono essere presi in considerazione, per la determinazione del luogo in cui il soggetto passivo si considera stabilito, solo in mancanza di informazioni pertinenti relative alla sede dell’attività economica o al centro di attività stabile a partire dal quale sono svolte le operazioni.

Pertanto, in una situazione come quella esaminata dalla Corte europea, nella quale la sede dell’attività economica del soggetto passivo è nota e si trova all’esterno del paese del destinatario, e non è stato messo in dubbio che si tratta della sede effettiva e reale e non di una sede fittizia, non si può tener conto dell’eventuale residenza privata del soggetto passivo all’interno di tale paese.

PLAFOND: status di esportatore abituale anche senza dichiarazione annuale IVA

L’esportatore abituale non perde il diritto ad effettuare acquisti senza applicazione dell’IVA se ha omesso di presentare la dichiarazione IVA per l’anno precedente, ma può comunque dimostrare di aver compiuto l’anno prima le operazioni  che gli attribuiscono lo status di esportatore abituale. Lo ha stabilito la C.T. R. di Torino, con sentenza  69/26 del 22 settembre 2011.

Ex art. 8, co.1, lett. c), e co.2, DPR 633/1972, gli esportatori abituali possono effettuare acquisti di beni e servizi nello Stato e importazioni di beni dall’estero senza applicazione dell’IVA, a condizione che i beni acquistati siano destinati ad  essere esportati come tali o previa trasformazione, lavorazione e simili e che i servizi siano inerenti a tali operazioni. Tale beneficio della non applicazione dell’IVA spetta entro un plafond, costituito dall’ammontare complessivo delle operazioni con l’estero (esportazioni  dirette  e  indirette, operazioni assimilate, servizi internazionali e operazioni intracomunitarie) che l’esportatore abituale ha registrato:

  • per  l’anno solare precedente (plafond fisso),
  • oppure, su opzione, per i dodici mesi precedenti (plafond mobile).

Per potersi avvalere del regime di non imponibilità sugli acquisti, nel limite del plafond, è necessario:

  • lo status di esportatore abituale se, ex art. 1 DL 746/1983, l’ammontare dei corrispettivi delle cessioni all’esportazione effettuate (art.8 lett. a) e b) DPR 633/1972), registrate nell’anno precedente, è superiore al 10% del volume d’affari  escluse le cessioni di beni in transito o depositati nei luoghi soggetti a vigilanza doganale;
  • che il contribuente che intende avvalersi della facoltà di effettuare acquisti o importazioni senza applicazione dell’imposta consegni o spedisca al fornitore o prestatore una dichiarazione d’intento.

Nel caso specifico oggetto della sentenza, l’Ufficio aveva emesso un avviso di accertamento nei confronti di un contribuente che aveva effettuato acquisti in regime di non imponibilità, ma non aveva presentato la dichiarazione annuale IVA relativa all’anno precedente, da cui si sarebbe potuto desumere il possesso dei requisiti per qualificarsi come esportatore abituale: l’Amministrazione finanziaria, pertanto, aveva disconosciuto il diritto a effettuare tali acquisti in regime di non imponibilità e aveva così determinato la maggiore IVA dovuta.

Il contribuente impugnava l’accertamento, allegando documentazione consistente in un elenco riepilogativo delle cessioni intracomunitarie effettuate l’anno precedente, rilasciato dall’Agenzia delle Dogane, dimostrando con tale materiale probatorio, di aver effettuato l’anno prima le operazioni necessarie a consentirgli di assumere la qualifica di esportatore abituale e di poter beneficiare, quindi, del regime di non imponibilità sugli acquisti dell’anno accertato: tale tesi veniva accolta dalla C.T.P. (primo grado).

L’Ufficio ricorre in appello, affermando che il diritto all’utilizzo del plafond IVA spetta solo ai soggetti che, oltre ad essere in possesso dei requisiti sostanziali, abbiano anche adempiuto alle formalità richieste dalla legge, tra cui la presentazione della dichiarazione IVA relativa all’anno precedente a quello a cui si riferisce l’utilizzo del plafond.

La C.T.R. (secondo grado) non ha condiviso tale assunto, stabilendo che la mancata presentazione della dichiarazione IVA dell’anno precedente non esclude dal beneficio in oggetto, e riferendosi a una sentenza della Cassazione (sentenza n. 9028/2011) che stabilisce che la sussistenza del diritto ad effettuare acquisti in regime di non imponibilità deve desumersi dal comportamento “concreto” del contribuente, purché verificabile.

Nel caso di specie, lo stesso Ufficio aveva accertato il volume d’affari del contribuente nell’anno precedente; inoltre, dalla documentazione rilasciata dall’Agenzia delle Dogane si desumeva l’ammontare complessivo delle operazioni rilevanti ai fini del plafond: in base a  tali dati, risultava chiaramente che il contribuente nell’anno precedente aveva effettuato cessioni intracomunitarie per il 47,42% del suo volume d’affari, dandogli così la qualifica di esportatore abituale per l’anno dopo (oggetto di accertamento).

Si precisa però che il riferimento alla sentenza della Cassazione fatto dalla C.T.R. di Torino parla di una fattispecie diversa rispetto all’omessa presentazione della dichiarazione IVA dell’anno prima: la Cassazione infatti, con tale pronuncia, ha solo stabilito che l’opzione per il plafond mobile, se omessa nel quadro VC della dichiarazione annuale IVA, può comunque desumersi per comportamento concludente.

INTRA UE: prova della cessione a carico del cedente

La Cassazione, con sentenza n. 20575/2011 (7 ottobre 2011), ha confermato che la movimentazione territoriale dei beni ceduti, dallo Stato UE del cedente allo Stato UE del cessionario, è elemento strutturale perchè l’operazione sia intracomunitaria: la prova della movimentazione deve essere quindi fornita dal cedente, affinchè l’operazione possa considerarsi intracomunitaria non imponibile.

La Cassazione ha quindi accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, avverso la decisione della C.T.R. Liguria, favorevole, invece, al contribuente: l’assunto del giudice di merito che un’operazione si considera intracomunitaria, quindi non imponibile, solo per il fatto che i beni ceduti siano destinati ad un soggetto passivo di Stato membro UE con codice identificativo IVA attribuitogli dallo Stato di appartenenza, non è stato ritenuto conforme nè all’art. 41, co. 1, lett. a) DL 331/1993, né al criterio di riparto ex art. 2697 c.c. 

La decisione della Cassazione si fonda sull’art. 41, co. 1, lett. a) DL 331/1993: sono non imponibili IVA le cessioni a titolo oneroso di beni, trasportati o spediti nel territorio di altro Stato membro, dal cedente o dall’acquirente, o da terzi per loro conto, nei confronti di cessionari soggetti passivi d’imposta.

Da ciò discende che la prova della cessione intra UE, ovvero l’effettivo trasferimento del bene nel territorio di altro Stato membro, è a carico del contribuente che emette la fattura, ex art. 46, co.2 DL 331/1993, poichè la fattura contiene la dicitura “operazione non imponibile”, coerentemente con il principio generale ex art. 2697 c.c. (l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale regime impositivo è a carico di chi invoca la deroga agevolativa).

La Cassazione ha, pertanto:

  • confermato quanto già sostenuto in passato in tema di onere della prova, con riferimento alle operazioni di cessione all’esportazione ex art. 8 DPR 633/1972 (Cass. n. 3603/2009), compreso il caso della triangolazione (Cass. 21956/2010).
  • precisato che l’art. 50 DL 331/1993 (“obblighi connessi agli scambi intra UE”, ad es. comunicazione del numero di partita IVA attribuito dallo Stato membro di appartenenza) opera su un piano distinto, rispetto all’identificazione degli elementi costitutivi della fattispecie ex art. 41 ( “cessioni intracomunitarie non imponibili”).

Contrariamente quindi a quanto affermato dalla CTR:

  • dall’art.50 DL 331/1993 sugli adempimenti formali non è possibile ricavare la prova dei presupposti applicativi della non imponibilità ex art.41 DL 331/1993;  la contestazione dell’esistenza dell’operazione intra UE non imponibile si fonda sulla mancata introduzione dei beni ceduti nel territorio dello Stato membro UE del cessionario;
  • non è vero che con la consegna al cessionario UE, avvenuta in Italia, i beni escono dalla sfera giuridica del cedente, a cui non compete quindi verificare l’uscita: la norma tributaria richiede invece espressamente – quale presupposto di non imponibilità – la destinazione effettiva dei beni nel territorio di altro Stato membro UE, ponendo a carico del soggetto che intende avvalersi del beneficio l’onere di fornire la prova dei relativi fatti costitutivi.

La Cassazione quindi non ha ritenuto sufficiente, ai fini probatori, che il cedente abbia richiesto ed ottenuto la conferma del numero d’identificazione IVA del cessionario assegnatogli dallo Stato UE di appartenenza, essendo, invece, necessaria la dimostrazione della reale introduzione dei beni in quest’ultimo Paese.